Specchio della psiche e della
civiltà
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 10 aprile
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Prima Parte)
Premessa. Inizialmente avevo intitolato gli appunti per
questo scritto Ancora qualche parola sulla bellezza e le sue ragioni, in
quanto si trattava di paralipomeni[1], ossia di ciò che per ragioni di tempo e spazio non
ho potuto includere nello scritto precedente; poi, rivedendo la bozza, ho
deciso di mettere in evidenza un aspetto che fa da sfondo a tutte le riflessioni:
si può assumere, ritenere o, se si vuole, riconoscere la concezione della
bellezza quale specchio nel quale troviamo riflessa l’immagine di un’anima,
di un popolo o di una cultura. In altri termini, il modo in cui si concepisce ciò
che è ammirevole non è un semplice indicatore di gusti e preferenze, ma un
rivelatore di identità.
Mi sono
reso conto che alcuni sviluppi interpretativi che ho proposto nell’articolo precedente
facevano implicitamente riferimento a tesi discusse e condivise nei nostri incontri
seminariali, che è opportuno richiamare per il lettore che non vi abbia preso
parte. Mi riferisco, ad esempio, ai collegamenti astratti ed espliciti fra la
dimensione istintiva del provare piacere per qualcosa che si vede, si sente o a
cui si assiste e la dimensione ideale; così come ai presupposti filosofici ignorati
dalla maggioranza ma all’origine dei modi più comuni di pensare, diffusi alla
collettività per contagio comunicativo.
In ogni
caso, rivedendo i frammenti accantonati, ho compreso che sarebbe stato
necessario istaurare un rapporto con il lettore, immaginandolo presente, come
nelle circostanze di discussione seminariale, e proporre quei contenuti nella
maniera più piana possibile, ossia adatta ad una comprensione immediata[2].
Nelle
parole che seguono espongo in sintesi alcuni presupposti dai quali ho preso le
mosse per le riflessioni e le considerazioni che propongo in questo testo, come
negli altri più recenti su questo argomento.
Si può
convenire che un sistema minimo perché vi sia bellezza sia costituito da un
elemento che suscita ammirazione e un percipiente. L’elemento può essere una
morfologia, un fenomeno o un fatto. Il percipiente è colui che conosce e perciò
riconosce la bellezza. L’esperienza e la riflessione mi hanno indotto a
ritenere che tale riconoscimento sia un processo della coscienza e, in
quanto tale, un’operazione che dispone del patrimonio di conoscenza esplicita
rappresentato nelle connessioni sinaptiche fra le reti neoencefaliche che
conducono il percepito e il rievocato al pensiero e al linguaggio.
Ma l’evidenza
ci dice che la maggior parte delle persone nella maggior parte del tempo della
propria vita non porta alla coscienza questo riconoscimento e tende a vivere la
realtà quotidiana focalizzando l’attenzione su doveri, necessità, urgenze e
problemi, senza adottare consapevolmente questo registro e, dunque, finendo per
contribuire con la propria passività al supporto di uno status quo che
trascura questo aspetto. Sono pochi coloro che pongono a sé stessi la questione
della bellezza e assumono un atteggiamento attivo di realizzazione, e
fatalmente costoro sono esclusi dal flusso principale della mente sociale riflessa
nei “media da asporto”.
L’atteggiamento
generale sembra essere del tipo: “Ho cose più importanti a cui pensare”. E
questo è comprensibile soprattutto se si considera la bellezza “esperienza
estetica cui si accede a pagamento” e dunque la si relega più o meno
consapevolmente nello spazio mentale del “lusso”, dell’extra, del non
essenziale. La concezione fuor di retorica di “nutrimento dello spirito”, comune
al pensiero dei Greci antichi e dei cristiani contemporanei[3], può essere realmente compresa solo se la si
pratica.
I problemi
economici causati o aggravati dalla pandemia stanno mettendo a dura prova una
parte considerevole della popolazione del nostro paese e riguardano da vicino
anche la nostra società scientifica che non riceve più il contributo delle
quote di iscrizione, ma proprio in questa difficoltà – si diceva al seminario
sull’Arte del Vivere – si può mostrare a coloro che non conoscono le
risorse della vita ideale, il ruolo che può avere la dimensione dei valori
astratti a supporto dell’Io, contribuendo a generare la forza necessaria per
affrontare le difficoltà e non subirle cadendo nel vortice di circoli viziosi
depressivi.
La difficoltà
di molti, soprattutto fra i giovani, di concepire la dimensione ideale, come
abbiamo visto di recente[4], mi ha indotto da un canto a stimolarne l’evocazione,
dall’altro ad analizzare le ragioni di questo impoverimento culturale diffuso.
Fra i motivi, oltre al non avere esperienza di persone che vivano ideali e
trasmettano le proprie convinzioni, mi è sembrato di riconoscere una certa
passività mentale, l’impegno costante in compiti applicativi, l’uso
standardizzato di procedure e la scarsa abitudine all’uso del pensiero astratto
per capire il mondo. Accanto a questo ho anche notato che oggi, rispetto a
venti anni fa, è drasticamente diminuito il numero di coloro che si pongono
domande sulla provenienza delle idee che circolano, comprese quelle di cui sono
latori o esecutori. È confortante notare l’accendersi di interesse all’ascolto
e all’incontro con tutto ciò di cui sono carenti.
1. Su Nietzsche e l’estetica come
eredità ancora presente nella realtà attuale. Il motivo principale che
mi porta a soffermarmi sul filosofo di Röcken è l’influenza esercitata dal suo
pensiero su tutta la cultura europea, con lo sviluppo di concezioni individuali
e sociali entrate a far parte dei modi più comuni e diffusi di intendere il
mondo nel tempo attuale[5]. Una delle ragioni della grande diffusione delle idee nicciane fra i
contemporanei fu la sua scelta di scrivere saggi non intesi quali comunicazioni
al mondo accademico, ma rivolti al grande pubblico, sull’esempio di Schopenhauer[6].
Se Immanuel Kant, seguendo la
definizione di Baumgarten, ha propriamente conferito nuova dignità di disciplina
del sapere all’estetica, definendo scienza filosofica della sensibilità la
lettura ragionata della realtà alla luce del sentimento del bello, è Nietzsche
ad aver maggiormente influenzato il pensiero dei nostri contemporanei in questo
ambito della cultura. Nel nostro paese la diffusione pervasiva di alcune idee
nicciane si può costatare negli scritti di molti docenti di filosofia estetica,
ma anche di estetica della letteratura italiana, e perfino nei brani imbastiti ad
hoc da critici d’arte per illustrare, interpretare o celebrare delle opere
contemporanee.
La concezione estetica di Nietzsche
ha influenzato generazioni di filosofi e maestri di pensiero, e la dicotomia che
contrappone l’apollineo al dionisiaco, da lui introdotta nel
saggio La nascita della tragedia[7], è ancora oggi insegnata e trasmessa come paradigma imprescindibile per la
comprensione della concezione degli antichi Greci: “Avremo acquistato molto per
la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica,
ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è
legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”[8]. Ma mi piace sottolineare che si tratta di un’acuta, suggestiva, evocativa
ed efficace chiave di lettura del filosofo tedesco e non di una struttura del
pensiero consapevolmente adottata dagli antichi nel concepire le opere del loro
ingegno. E per questo motivo, seguendo le argomentazioni sviluppate, è più
facile leggervi elaborazioni motivate da elementi della psicologia individuale del
pensatore ottocentesco che tratti dello stile noetico dei contemporanei di
Platone.
Nietzsche sa scrivere, è
accattivante, immaginifico, cerca di dilettare il lettore per conquistarne l’attenzione
e il consenso. Il suo testo non è mai banale, ricco di contenuti come quello
degli antichi e preciso nel lessico senza mai essere ampolloso, attinge a
Schopenhauer per ottenere una vivacità di argomentazione insolita nella tradizione
accademica della teoretica germanica, e preferisce spesso una tecnica
psicologica ai mezzi tradizionali della persuasione retorica.
Nietzsche sente di aver individuato
una radice psico-antropologica e, forte di questa convinzione, propone l’illustrazione
delle sue elaborazioni basate sul paradigma dicotomico con la forza di una descrizione
di fatti. La sua equiparazione dell’apollineo al sogno e del dionisiaco
all’ebbrezza ci offre uno spunto per indagare su possibili origini
psicologiche individuali operanti come inconsapevoli motivatori creativi, ossia
quei processi non articolati nel logos della coscienza, cui abitualmente
si dà il nome di ispirazione.
Apollineo, ovvero il sogno. Anche se nella coscienza di Nietzsche c’era un
programma di demolizione della ragione cartesiana che faceva da struttura
portante del senso comune, da molti indizi biografici si deduce che nella sua mente
sussisteva la tentazione di aderire alla cultura della sua formazione. In particolare,
tendere a raggiungere la serena compiutezza che la borghesia ottocentesca aveva
impresso ai ruoli sociali di matrice cristiana, lontani dalla precarietà del
bisogno economico, come dall’eroismo del martirio. Per molti si tratta di una
forma secolarizzata di bellezza ideale; per Nietzsche è da collocare nell’irrealtà
del sogno.
Dionisiaco, ovvero l’ebbrezza. Quando sviluppa l’idea della musica come arte
totalmente espressa in un registro dionisiaco, il filosofo era ancora sotto l’effetto
emotivo delle composizioni di Richard Wagner, che ammira ed esalta fino a
quando non viene da questi disconosciuto e abbandonato. Sostiene infatti che,
basandosi su Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer,
Wagner stabilisce che “la musica è da giudicare in base a principi estetici
completamente diversi rispetto a tutte le arti figurative, e in particolare non
in base alla categoria della bellezza, benché un’estetica sbagliata, sotto la
guida di un’arte traviata e degenere, si sia abituata a pretendere dalla
musica, partendo da quel concetto di bellezza valido per il mondo figurativo,
un effetto simile a quello delle opere di arte figurativa, ossia l’eccitazione
del piacere per le belle forme”[9].
L’elaborazione creativa di scenari
immaginari di ebbrezza dionisiaca nasconde la spinta di Nietzsche alla
ribellione al ruolo che esigeva un composto e civile contenimento dell’Io nel
contesto sociale, a favore dell’esaltazione dell’istinto, sublimato in una
ideologia apertamente anticristiana.
Tessendo le lodi dell’ebbrezza
dionisiaca, il filosofo di Röcken scrive:
“Anche nel medioevo tedesco schiere
sempre più vaste si agitavano sotto lo stesso potere dionisiaco, cantando e
danzando, muovendosi da un luogo all’altro: in quei danzatori di San Giovanni e
di San Vito noi riconosciamo le schiere bacchiche dei Greci, con la loro
preistoria in Asia Minore, sino a Babilonia e alle Sacee
orgiastiche. Ci sono uomini che, per mancanza d’esperienza o per ottusità,
distolgono lo sguardo da tali fenomeni come da «malattie popolari»,
schernendoli o compiangendoli nella coscienza della propria sanità: i poveretti
non sospettano certo quanto cadaverica e spettrale apparirebbe appunto questa
loro «sanità», quando passasse loro accanto fremendo la vita ardente degli
invasati di Dioniso”[10].
Per la verità, il concetto di dionisiaco
nel mondo classico era generalmente impiegato secondo una connotazione negativa,
sia perché l’alterazione della coscienza indotta dall’alcool era condannata
tanto dai filosofi greci quanto dalle autorità romane, sia perché era noto che sotto
il manto dei riti dedicati al Dioniso greco e al Bacco romano si nascondevano antichissime
pratiche esoteriche risalenti a popolazioni di sostrato, che includevano orge,
accoppiamenti di ogni genere in stato di ebbrezza, promiscuità con animali, uso
di erbe demonizzanti, ossia sostanze psicotrope vegetali, e perfino, talvolta,
sacrifici umani. Il celebre Aulo Persio Flacco nella sua prima satira si esprime
così: “Ma bravo il mio poeta! C’è oggi chi voglia perdere il suo tempo sull’opera
venosa del dionisiaco Accio o su Pacuvio e la sua verrucosa Antiopa che
puntella sui suoi dolori il cuore in lutto?”[11]. Il dileggio parodistico si basa sul senso di greve, grossolano e
antiquato di dionisiaco e sul fatto che Accio era chiamato Brisaeus, un appellativo proprio di Dioniso; venosa
si riferisce per ipallage all’opera, indicando la vasodilatazione alcoolica che
rende evidenti le vene superficiali e il più pronunciato disegno vascolare
delle persone anziane.
Il luogo comune utilizzato da Persio
per l’effetto umoristico vuole il dionisiaco assimilato all’antitesi del
bello, valido e nuovo, come tropo concettuale non riferibile all’arte se non
come antitesi grottesca o imbarazzante analogo sottoculturale.
D’altra parte, si comprende che il desiderio
nicciano di sfuggire alla visione che vedeva incardinata la ragione classica sulla
struttura del pensiero cristiano, portasse il filosofo a cercare elementi nella
tradizione greca simili a quelli dell’antico paganesimo germanico da lui adottati
come ateo che si ribella alla morale della sottomissione a Dio. Sui punti di
contatto tra le Menadi al servizio di Dioniso, ma pronte a scatenarsi
indipendentemente dal dio, e le Valchirie agli ordini di Odino, ma indipendenti
nella scelta degli eroi morti da portare al Valhalla e di quelli vivi di cui diventare
amanti, si possono scrivere interi saggi.
Un aspetto appare evidente: la
motivazione di Nietzsche in questi studi non è pura passione storica,
filologica e filosofica, ma esigenza profonda e personale di trovare – o,
se necessario, creare – radici dell’estetica e della morale diverse da
quelle che il neoplatonismo delle accademie e la speculazione dei più grandi
maestri del pensiero aveva interpretato e veicolato fino al XIX secolo. Radici
in grado di supportare il progetto di fare del proprio stile psico-adattativo
un modello antropologico.
Dopo aver cercato di distruggere
tutto ciò che a quel tempo si considerava oggettivo nell’etica ripensando le
radici della morale, Nietzsche affronta un altro punto cruciale nel programma,
ossia l’attacco diretto all’edificio della ragione neoclassica: farsi beffe di
Socrate è il modo più eclatante, se non il più efficace, per gettare dubbi
sulla millenaria autorità di Platone.
In altre occasioni, l’obiezione mossa
da Nietzsche alla saggezza socratica del dominio di sé l’ho assimilata all’atteggiamento
di Callicle[12], che contestava Socrate sostenendo il valore positivo dell’assecondare istinti
e desideri; ma qui, andando un po’ oltre, mi piace attrarre l’attenzione sulla
radice psicologica dalla quale nascono come razionalizzazioni i pensieri del
filosofo.
Come quegli adolescenti che sono troppo
vicini all’infanzia per considerarla con sereno e comprensivo equilibrio, e la giudicano
con durezza per prenderne le distanze, così Nietzsche si fa beffe dei prodotti
semplici della ragione artigiana di Socrate, quasi fossero balocchi per il trastullo
di pargoli, e deve colpirli con sferzante ironia, perché non ha la capacità “adulta”
di gettarli come semi nella terra fertile di un ingegno scevro da pregiudizi e
amante delle risorse della logica, quale sarà quello di Wittgenstein nel secolo
successivo.
Quella di Nietzsche è la certezza
proterva di chi sa che il gioco della vita è truccato a favore del croupier,
ovvero di chi detiene il banco del potere, ma sa anche come barare per farsi
giustizia da solo e vincere ogni posta, ad ogni mano, ad ogni puntata, giocando
su tutti i tavoli con la tracotanza beffarda e guascona di chi sa di essere
protetto dal segreto che lo accomuna ai detentori politici delle facoltà di governo:
l’uso oculato e scaltro dell’influenza suggestiva e dell’effetto evocativo dei
valori simbolici.
Ma aver compreso il potere dei simboli
non vuol dire esserne il padrone, allora fingere di esserlo, andando oltre il mostrarne
il valore a chi, cieco e sordo, rimane schiavo dell’ordine simbolico, cos’altro
è se non una trovata, una boutade, trasformata in un’iperbole filosofica
tesa al punto da farsi prendere sul serio anche dai più esigenti?
E cos’è infatti il superuomo,
oltreuomo o ultra-uomo, come viene tradotto Übermensch, se non un
magistrale colpo di teatro, una finzione di scena, un prodotto dell’arte come unicorni,
ippogrifi, centauri, sirene e altre creature di fantasia, quali quelle evocative
e sinistre, piacevoli e inquietanti della pittura di Hieronymus Bosch, che lui
così bene conosceva?
Ma se entri nell’ordine delle sue parole
sei giusto nel mezzo, come chi accede alla dimensione costitutiva di un’opera d’arte
e viene messo a parte del segreto dell’artista: sta a te decidere da che
parte stare. Anche se in astratto non conosci la struttura della magia, sei
consapevole della natura dell’artificio. Übermensch è una figura[13] prossima a un personaggio che interpreta la realizzazione dionisiaca dell’uomo
risolvendo la dicotomia di invenzione nicciana che contrappone lo spirito dionisiaco
all’apollineo, considerato custode dei valori etici e dei canoni artistici tradizionali.
Ma Übermensch, proposto da
Nietzsche come possibilità effettiva e sperimentata personalmente di sviluppo
illimitato del sé, se non può assurgere a modello antropologico del nichilismo
attivo, come in un certo senso voleva il filosofo di Röcken, non può nemmeno
ridursi a una maschera di teatro. E allora, mettendo da parte i proverbiali
fiumi di inchiostro che sono stati versati per commentare questo modello ideale,
credo si possa cogliere un tratto d’essenza che si impone alla nostra attenzione,
magari senza una completa coscienza della sua ragione: l’ambigua realtà di ciò
che non è né vero né falso, e può essere scomodo, suggestivo o affascinante.
Niente di più. A meno che qualcuno, per aver introdotto il proprio immaginario
nell’ordine simbolico collettivo, non si illuda di essere padrone del senso
e adoperi la forza del potere e il sangue di massacri per imporre quale verità
l’identificazione di sé stesso con una figura simile, come fece Adolf Hitler.
[continua]
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-10 aprile 2021
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presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1]
Cfr. Note e Notizie 06-03-21 Ancora qualche parola sulle ragioni della
bellezza. Avevo evitato, in ogni caso, di riportare la parola di origine greca nel
titolo, per non rischiare di scoraggiare persone poco disposte ad affrontare un
testo che, in quel modo, si sarebbe annunciato come potenzialmente ricco di
termini astrusi, desueti o di un gergo elitario.
[2] Questo ha comportato una maggiore articolazione del testo che ha
raggiunto una lunghezza che mi ha imposto la ripartizione in più parti per la
pubblicazione.
[3] Dal platonico dialogo di Socrate
sulla bellezza alla pastorale sulla “bellezza che salverà il mondo” di Papa Woytila
(San Giovanni Paolo II) si conserva lo stesso valore, sia pure secondo due
differenti prospettive ontologiche.
[4] In un cineforum virtuale in cui
si ripercorreva la vicenda di Sacco e Vanzetti condannati a morte per la loro
fede anarchica, molti giovani hanno mostrato di non comprendere il senso delle
ragioni ideali (Note e Notizie 06-03-21 Ritrovare nei segni le ragioni della
bellezza).
[5] Basti pensare all’ambizione
per l’affermazione di sé attraverso la scalata sociale o l’ascesa economica,
ritenuta un peccato dai cristiani e una debolezza dai laici, che diventa in
tutto il mondo occidentale, e poi anche in quello orientale, “legittima
aspirazione”, sulla base di una concezione borghese di radice nicciana.
[6] È possibile che Schopenhauer
abbia mutuato l’idea da Goethe, più scrittore che filosofo, col quale fu in
sodalizio dal novembre 1813 al maggio 1814.
[7] Nietzsche sostiene la tesi che
la dimensione del bello proprio della scultura, ricondotto ad Apollo, e il
bello della musica, tutelato da Dioniso, in costante antitesi, trovino una sintesi
nella tragedia attica.
[8] Friedrich Nietzsche, La
nascita della tragedia, p. 21, Adelphi, Milano 2000.
[9] Friedrich Nietzsche, op. cit., p. 106.
[10] Friedrich Nietzsche, op. cit., p. 25.
[11] Persio, Satire, p. 135,
Rizzoli, Milano 1979.
[12] Note e Notizie 04-07-20 Il
desiderio tra sogno e responsabilità.
[13] Per figura nella filosofia
del Novecento si è generalmente intesa una rappresentazione a metà tra immagine
e concetto. In questa accezione, la definizione corrente del Superuomo
come figura della filosofia nicciana non sarebbe appropriata.